Il Green PVC Compound e il “Made In Italy”

NEW!! L’evoluzione del tessuto produttivo italiano

Dopo 8 anni dall’inizio della crisi, il tessuto produttivo italiano si trova di fronte a due tendenze:

  • Riduzione delle dimensioni delle aziende;
  • Maggior diversificazione tra impresa ed impresa con una piccola minoranza di imprese di qualità e una grande maggioranza di imprese che fanno fatica a confrontarsi con un mercato globale.

Ci sono due fattori che oggi permettono alle aziende di sopravvivere sul mercato: esportazione e brand.

Il settore del compound di PVC italiano ha al suo interno entrambi questi fattori.

Innanzi tutto è il settore della filiera del PVC italiana maggiormente aggressivo sui mercati esteri con un aumento costante delle quantità esportate dall’Italia verso paesi europei ed extraeuropei. Oltre 150.000 tonnellate di compound in PVC sono stati esportati verso Paesi europei ed extraeuropei nel 2014.

Inoltre, le aziende associate al PVC Forum Italia, con il Marchio Green PVC Compounds hanno voluto presentarsi sul mercato con un Label di sostenibilità a garanzia del cliente/consumatore. Ma questo non basta più ed è, probabilmente, ora che questo Label evolva ed entri nell’alveo di un Marchio “Made in Italy” che dia l’immagine di un prodotto innovativo, prestazionale, frutto dell’inventiva e della professionalità italiana.

Ma possiamo etichettare “Made in Italy” i compound in PVC prodotti dalle aziende aderenti al Marchio Green PVC Compounds?

Anche se non esiste una normativa chiarissima su come e quando un prodotto, un preparato o un articolo possa essere definito “Made in …”, cerchiamo di dare una risposta a questa domanda , risposta che naturalmente necessiterà di una ulteriore verifica a livello legislativo italiano ed europeo.

Situazione del “Made In”

Nel 2014 il Parlamento Europeo aveva approvato una proposta di regolamento sulla sicurezza generale dei prodotti che prevede l’obbligo dell’indicazione di origine sui prodotti non alimentari venduti in Europa non ancora soggetti ad armonizzazione Europea, il così detto “Made in”.

L’indicazione del paese d’origine costituirebbe un complemento necessario ai requisiti di base di tracciabilità e rappresenterebbe l’unico modo attraverso il quale i consumatori possono determinare il paese di produzione di un prodotto. Inoltre questo aiuterebbe le autorità di controllo ad identificare il luogo effettivo di fabbricazione nel caso in cui il fabbricante non sia rintracciabile o qualora l’indirizzo del produttore fornito sia diverso da quello del luogo effettivo di fabbricazione o il nome e il recapito del fabbricante siano completamente assenti o se l’indirizzo è sull’imballaggio, di cui il consumatore frequentemente si disfa.

Allo stesso tempo, secondo la proposta approvata, i produttori UE potrebbero scegliere se mettere sull’etichetta la dicitura “Made in EU” oppure il nome del loro Paese.

Ovviamente le merci interamente ottenute in un unico Paese sono considerate originarie di tale Paese o territorio, mentre per le merci prodotte in luoghi diversi, il “paese di origine” sarebbe quello in cui il bene ha subito “l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata”, che si sia conclusa con la “fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione” (come definito nel Codice Doganale Comunitario, Regolamento CEE n. 2919/92).

Ricordiamo che sono già soggetti ad armonizzazione europea i settori tessile, calzaturiero, pelletteria, prodotti conciari e divani per i quali la dicitura “Made in Italy” dovrebbe essere possibile solo su prodotti finiti per i quali almeno due delle fasi di lavorazione abbiano avuto luogo prevalentemente nel territorio nazionale e per i quali sia verificabile la tracciabilità delle rimanenti fasi.

È ben noto che Il “Made in Italy” è un valore percepito legato all’autenticità e alla manifattura del prodotto e conferisce una connotazione di qualità al prodotto, ma esiste il rischio che talvolta possa portare a contraffazioni con indicazioni volutamente false sull’origine.

Secondo la proposta del Parlamento Europeo, al fine di determinare il Paese d’origine, si applicano le regole di cui agli articoli da 59 a 62 del Regolamento (UE) n. 952/2013 che aveva ribadito che l’origine di un prodotto è il luogo in cui è avvenuta “l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale, economicamente giustificata”, che si sia conclusa con la “fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione”.

Come ormai riconosciuto, l’Italia è diventato un Paese importatore di molte delle sostanze chimiche e dei prodotti intermedi utili per produrre gli articoli finiti. Quindi, come possiamo applicare questa definizione un po’ “generalizzata” a preparati e articoli dell’industria chimica italiana?

Sulla definizione presa a riferimento non sembrano impattare le eventuali percentuali di sostanze nazionali o estere impiegate nella produzione di un preparato o di un articolo e, quindi, anche chi produce preparati/articoli composti con sostanze importate da altri paesi dovrebbe potersi fregiare del marchio “Made in Italy”.

Per cercare di definire il significato di “trasformazione e lavorazione sostanziale”, riportiamo di seguito alcuni esempi che meglio chiariscono chi dei trasformatori può utilizzare il Marchio “Made in” sui suoi prodotti messi in commercio, partendo dalla prima indicazione data dalla Corte Europea di Giustizia (C-49/76 Gesellschaft für Überseehandel) nel lontano 1976. La Corte Europea aveva definito che una “trasformazione sostanziale” si verifica solamente nell’ipotesi in cui “il prodotto che ne risulta abbia composizione e proprietà specifiche che non possedeva prima di essere sottoposto a tale trasformazione o lavorazione”.

Quindi, in generale, tutte le attività di pura conservazione di un prodotto o che si limitino a modificare l’aspetto esteriore della merce, ad esempio attraverso il cambio di imballaggio, non possono essere considerate sufficienti a conferire l’origine non preferenziale alla merce in quanto non modificano nella sostanza la merce stessa.

Allo stesso modo non basta che il “concept design”, l’idea del prodotto, il progetto, lo stile avvengano in Italia per l’attribuzione del Made in Italy.

Anche il semplice assemblaggio di parti di articoli allo scopo di formare un articolo completo o lo smontaggio di prodotti in parti, non sembrerebbe costituire una lavorazione sufficiente a conferirne l’origine.

Il Compound ed il “Made in”

È evidente che un preparato, un prodotto intermedio o un articolo finito in plastica trasformato in Italia ha bisogno di sostanze e materie prime non tutte provenienti dal territorio nazionale. Se prendiamo l’esempio dei prodotti in PVC, il polimero è acquistato da produttori non italiani (europei, americani o dell’estremo oriente), allo stesso tempo molte delle sostanze necessarie alla sua trasformazione, e a dare le caratteristiche prestazionali volute, sono importate dall’estero.

Ma nella fase di trasformazione, le suddette sostanze vengono “lavorate” in modo tale che “il prodotto che ne risulta ha proprietà specifiche che esse non possedevano” e questo dovrebbe far rientrare il preparato “PVC compound” e l’articolo finale nella definizione data dalla Corte di Giustizia europea che abbiamo precedentemente espresso.

Quindi, se la fase di lavorazione o di trasformazione avviene in Italia, ecco che la definizione di un preparato/prodotto “Made in Italy” dovrebbe poter essere applicato.

Relativamente al Compound di PVC, non solo il tipo, la quantità e la qualità delle sostanze utilizzate per produrre in Italia il preparato solido è il frutto delle conoscenze delle aziende italiane ma anche le metodologie di lavorazione (blending) delle sostanze e di trasformazione (compoundizzazione tramite estrusione).

L’esperienza maturata da parte delle aziende aderenti al Marchio Green PVC Compound, dopo anni di messa a punto di formulazioni esenti da piombo, metalli pesanti in generale e plastificanti ftalici a basso peso molecolare, ha accresciuto ancor più le capacità e conoscenze sull’uso di nuove sostanze “più sostenibili”. Inoltre l’accresciuta presenza sui mercati internazionali ha anche favorito la conoscenza da parte delle aziende italiane delle necessità prestazionali dei diversi mercati europei e mondiali, rendendo disponibile il know how italiano nella messa a punto di compound di PVC idonei alle necessità dei produttori di articoli stranieri.

In conclusione, il Marchio Green PVC Compounds dovrebbe essere non solo visto ma anche considerato come un Marchio “Made in Italy” e, di conseguenza, le aziende che vi hanno aderito dovrebbero poter ricevere autorizzazione a mettere in commercio prodotti “Made in Italy” al servizio della trasformazione del PVC.